As a former attendant of one of the Reggio Emilia kindergartens, I was asked to write an article focusing on visual language for Rechild, a yearly magazine published by Reggio Children.
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Drawing is a language like any other. Or, almost. Instead of taking the highway, it follows a map made up of back alleys, garden crossings, window entrances, and detours to tangled subway lines. The destination is always the same, which is communication, but we don;t necessarily all get there in the same way.
Expressing oneself with this kind of language is a bit like squatting on the sidewalk observing a long line of ants, and imagining lifting it gently and wearing it like a necklace. It is a way of understanding reality that follows the laws of physics and all of a sudden you’re distracted by a butterfly so you leave the house without your shoes only to find yourself somewhere else entirely.
When the pencil is about to touch the paper, one prepares, as before, for a journey. You roll up your sleeves, adjust your chair, take a sip of water, and off you go.
During the flight terracotta color plains and sugar mountains unfurl beneath us, sounds are underwater, and the hand draws lines the eye is not familiar with, recounting that which is not yet known. When one sets the pencil down, one sometimes feels as tired as if they had been walking for hours. Other times they feel electric, and would delay going to bed.
In other words, the peculiarity of this strange language is that it allows you to chat with the world even when you cannot find the words.
Il linguaggio grafico è un linguaggio come gli altri. o Quasi. Anziché prendere l’autostrada infatti, segue una mappa fatta di vicoli secondari, attraversamenti di giardini, ingressi dalle finestre e deviazioni per linee metropolitane ingarbugliate. La destinazione è sempre la stessa, ossia la comunicazione, ma non è detto che ci si arrivi tutti nello stesso modo.
Esprimersi con questo tipo di linguaggio è un po’ come accovacciarsi sul marciapiede ad osservare una lunga fila di formiche, immaginare di sollevarla delicatamente e indossarla come una collana. È un modo, cioè, di intendere la realtà e di confrontarsi con essa che segue le leggi della fisica ma che sul più bello, per seguire una farfalla passata lì per caso, esce di casa senza le scarpe e si ritrova da tutt’altra parte.
Quando la matita sta per toccare la carta, ci si prepara come prima di un viaggio. Si tirano su le maniche, si sistema la sedia, un sorso d’acqua e si parte. Mentre siamo in volo, sotto di noi scorrono pianure color terracotta e montagne di zucchero, i suoni sono sottomarini, la mano traccia linee che il nostro occhio non conosce e raccontano cose che ancora non sappiamo. A volte quando si posa la matita ci si sente stanchi come se avessimo camminato per ore. Altre invece si è elettrizzati e non si vorrebbe mai andare a dormire.
La peculiarità di questo strano linguaggio, in poche parole, è che consente di chiacchierare con il mondo anche quando le parole non si trovano.